È vero, ho il volto disperato, assente, distrutto. Il viso della donna nel dipinto L’assenzio di Degas ora è il mio autoritratto. Sono seduta su una sedia impagliata e sbilenca che mi punge le cosce, con i gomiti appoggiati su un tavolo di legno che puzza di vino. Ho le mani incrociate come se stessi pregando e le premo nervosamente contro la bocca.
Al banco del bar c’è un uomo sulla sessantina che non mi ha ancora vista. Sta passando uno straccio sudicio dentro la vetrina che dovrebbe essere piena di panini, ma invece è vuota. Solo un enorme vaso di olive, di un colore che dal verde sfuma al nero, e un formaggio avvolto nella pellicola.
Finalmente alza gli occhi, incorniciati da sopracciglia bianco candido, come la sua barba.
«Mi scusi, signorina, non l’avevo sentita entrare.»
Forzo un sorriso infilando le mani nel cappotto.
«Cosa le porto?» chiede voltandosi di spalle, ma io continuo a vederlo riflesso sugli specchi opachi, interrotti da file di bicchieri polverosi.
«Un vino, uno qualsiasi. Uno che mi faccia bene.»
Ride rumorosamente, come se non fosse la prima volta che qualcuno gli fa una richiesta del genere.
Si piega, e per qualche secondo non lo vedo e non sento nessun rumore. Ho il tempo di capire meglio dove sono finita, anche se dovrei piuttosto comprendere perché mi sono buttata dentro un posto del genere. Sulla parete alla mia destra sono appesi dei quadri in bianco e nero. Sono foto, ma non riesco a capire né il periodo storico né il luogo dello scatto. Dalla parte opposta, dietro una slot machine su cui c’è scritto “GUASTO”, una tenda color crema, immobile, con una spilla da balia a fissare un foglio sbiadito con la scritta “bagno”, calcata con un pennarello nero.
Ritorno attenta a ciò che succede davanti a me. L’uomo, che finora ho visto solo a mezzo busto, sta scendendo un gradino e tiene in mano due bicchieri di vino. Non sono calici, ma bicchieri da osteria, la cui brillantezza è sfuggita, come lo sguardo di chi ha smesso di aspettare. Rimango impressionata da ciò che non avevo notato prima. È un signore distinto: indossa una camicia bianca e un gilet pied-de-poule nei toni del grigio, dal quale esce una catenella argentata che probabilmente nasconde un orologio da taschino. I pantaloni sono neri e terminano su scarpe eleganti. Quanta ricercatezza per un posto così. Mi chiedo cosa ci sia di sbagliato nella sua vita.
Sposta la sedia davanti a me, si siede e appoggia i bicchieri tra noi. Allunga il braccio per avvicinarmi un vino dal colore smunto e, subito dopo, con il dorso della mano, trascina via le briciole di pane fino all’orlo del tavolo, per poi lasciarle cadere.
Sono in imbarazzo e mi volto verso la porta. Oggi il cielo è azzurro da far male, inganna chi dell’estate sente già la mancanza. Vedo passare, contemporaneamente, una donna avvolta in una sciarpa rosa che sfiora l’asfalto, stretta in un paio di jeans neri — mi somiglia, sembra me una decina di anni fa — e un uomo con una t-shirt arancione, curvo nelle spalle e dall’andatura pigra.
«Fa freddo oggi, guardi lì», dice, indicandomi un barbone dall’altro lato della strada.
Si alza di scatto, facendo tremare il tavolo e il vino nei bicchieri. Torna dietro il bancone, apre ante sopra e sotto, cerca, sbuffa, sbatte. Dentro a una borsa di carta lo vedo inserire bottiglie d’acqua, patatine, pane. Esce a passo spedito, attraversa la strada facendosi largo tra la folla. S’inginocchia e appoggia il sacchetto ai piedi del barbone. Non so cosa si stiano dicendo, ma l’uomo apre le labbra scure in un sorriso, dove denti scheletrici sembrano testimoni silenziosi di una lunga battaglia.
Rientra di corsa, buttandosi dentro il locale, come avevo fatto io poco prima. Come se quel luogo fosse un paradiso, un salvavita, una boccata d’aria dopo aver sentito mani sudate stringersi al collo, lentamente soffocanti. Torna a sedersi, emettendo piccoli soffi con la bocca, come se gli si fosse raffreddata anche la gola e cercasse di recuperare calore. Strofina le mani sulle braccia, alzando le spalle quasi a toccarsi le orecchie. Si è portato dietro un odore di cenere, di autunno, di tempo che cambia.
«Ci hanno lasciato una compassione a intermittenza, e spesso rimane spenta. Sa, non si nasce umani. Umani si diventa. È necessario disossare il cervello dai pregiudizi, dalle false convinzioni.
Noi desideriamo tornare a casa per gran parte della vita, perché casa non è un luogo, ma una sensazione. E io, a quell’uomo, oggi, ho dato un po’ di casa.»
Non so cosa rispondere. Cerco di ripetermi mentalmente ciò che ha detto, per trovarci chissà quale significato nascosto, un riferimento a me, alla mia presenza qui.
«Le va di ascoltare una canzone?», chiede, e gli si illuminano gli occhi. Non posso dire di no.
Si alza, sempre con quello scatto che si addice a un uomo giovane e indaffarato, anche se qui c’è ben poco da fare.
Non avevo notato lo scaffale vicino alla porta d’ingresso su cui poggia un giradischi. È colmo di polvere — a pensarci bene, qui c’è polvere dappertutto. Di fianco, solo un vinile. Ci soffia sopra, lo spolvera con la mano, come poco prima aveva fatto con le briciole. Non riesco a leggere il titolo. Un fruscio, poi parte un arpeggio di chitarra e, subito dopo, una voce sofferta, colma di cose da dire oltre a quelle che già sta pronunciando.
È ancora di spalle e lo vedo ondeggiare leggermente da un piede all’altro, poi si volta e torna a sedersi. Ha un volto diverso, non saprei definirlo. Malinconico, forse. Indifeso, ma pur sempre delicato.
«Lo sente?»
«Cosa?» chiedo, curiosa.
«Il sogno, il sogno da ricordare.»
«Non capisco», dico, e mi sento a disagio. Credo di essermi cacciata in una situazione da cui non so uscire. Forse è pazzo. Si spiegherebbe perché nessuno entra qui.
«Io ce l’ho un sogno da ricordare», dice, chiudendo gli occhi.
«Io e mia moglie, la domenica mattina, stretti a ballare questa canzone mentre preparava il pranzo: lasagne e arrosto. Ogni domenica, la stessa canzone, lo stesso pranzo, lo stesso vestito. Portava un abito lungo quasi fino ai piedi, color verde bottiglia, e allacciato in vita un grembiule a fiori rossi…»
«E dov’è sua moglie adesso?», chiedo con un nodo in gola, come se sapessi la risposta.
«È nel suo sogno. Ha presente il colpo che si sente quando l’atrio si accavalla sul ventricolo? Quel dolore l’ha mai provato?»
Non so cosa rispondere. “È nel suo sogno” non riesco a capirne il senso. Forse una risposta ambigua, solo poetica.
«Non credo di aver mai provato un dolore così, anche se ora il mio stato d’animo potrebbe avvicinarsi a una fitta simile.»
«Le auguro invece di non provarlo mai. È una desolazione da cui non si esce più.»
Bevo un sorso di quel vino acido e, mentre lo faccio, decido di buttarlo giù tutto d’un fiato.
«Quante volte si è innamorata nella sua vita?», chiede, cogliendomi alla sprovvista.
«Non saprei, sicuramente una volta in più del necessario. Mi sono innamorata di persone che non ho mai conosciuto, così da poterle avere per sempre, perfette nella mia testa, da prendere quando più ne avevo bisogno.»
«Arriverà, mi creda. Deve solo avere coraggio, scavarsi nello stomaco e cercare le farfalle.»
«Al momento le cose si fottono una alla volta, con ordine, nell’eleganza di un domino inesauribile.»
«Questo lo crede adesso. Ma dovrebbe guardare tutto dall’alto, come da una ruota panoramica, per avere una visione completa.»
Si alza dalla sedia, prende il suo bicchiere ancora pieno e torna dietro il bancone, afferrando di nuovo lo straccio unto.
«Offro io. Ora può andare!»
Sono spiazzata dall’invito a uscire.
Mi sento il cuore in ogni parte del corpo: appena sotto pelle, nelle mani, nello stomaco, al posto del cervello.
Sono un groviglio di battiti affrettati, un pulsare inarrestabile.
Afferro la borsa e mi dirigo verso la porta.
Non bada più a me, eppure abbiamo avuto uno scambio insolito e profondo.
Ci siamo raccontati a mezze parole, che mezze non erano.
Sulla soglia mi blocco.
Di fianco al giradischi, con la puntina ferma al centro del disco, leggo: Otis Redding – I’ve Got Dreams To Remember.
Appena sopra, in una cornice bianca, moderna e pulita, un foglio scritto a penna, in un corsivo composto e nitido:
“Saremo lacrime e tempesta, pioggia e ruggine, polvere e asfalto.
Saremo schiuma, uno sulla bocca dell’altro, pregna di offese scappate da un meccanismo in tilt,
in una sera in cui avremo bevuto troppo.
Saremo schiuma su bocche alcolizzate di rancore.
Quando saremo tutto questo, non dimenticarti di amarmi.
Anna.”
19 ottobre, 1987
Esco e non sento il freddo che mi aveva costretta a entrare lì almeno un’ora prima.
M’incammino verso la fermata della metro, contro un vento insolitamente tiepido.
Prendo il telefono e invio un messaggio:
“Lo senti il rumore che fai? Esplodi sempre tra lo stomaco e il cuore.”
Passano pochi secondi. Il telefono squilla.
Sei tu.