Non è importante come si inizia, ma sempre come si finisce.
Mi chiedo cosa ci sto a fare qui, dopo tutti questi anni. Mi ripeto che è il momento giusto per arrestare un’emorragia che dura da troppo tempo. Devo solo digerire tutta questa vita che, a bocconi grossi, si è messa tra me e te.
Comincia a piovere mentre ti aspetto in questa piazza vuota. Potrebbero esserci spettatori e figuranti, ma non mi accorgerei di nulla, nemmeno se fossi in mezzo a una folla. Tremo, e i brividi sono come scariche elettriche incontrollate. È tutto immobile, niente si sposta intorno. Solo i tuoi occhi, agitati, corrono da una parte all’altra e si agganciano ai miei.
Stai già rubando il mio amore a tutto il resto, in questa notte di pioggia fredda, dove il vento si attorciglia a noi.
Scivolano le gocce dai miei capelli e muoiono sulle mie braccia. La tua mano leggera asciuga ogni lacrima che scorre lenta sul mio corpo, e passi le dita sul mio volto come se non mi vedessi. Come se fossi cieco. Come se, toccandomi, io diventassi più vera.
Vorrei parlarti, eppure non ci riesco. È tutto bloccato, interrotto, sospeso tra lo stomaco e il cuore.
Sapevo che saresti arrivato insieme alla pioggia, in un giorno qualunque, mentre io – aspettandoti – ho vissuto tutta la vita in modalità sopravvivenza.
Mi prendi sottobraccio e mi trascini al riparo di un portico, lontano dai lampioni e dal rumore insistente di quello che ormai è diventato un temporale.
Come se fossimo esausti – e forse lo siamo – ci accasciamo sulle ginocchia su un pavimento gelido e bagnato, a chiederci perdono o a invocare pietà.
Non ci siamo ancora detti niente, eppure i nostri palmi si toccano. Le nostre fedi si scontrano, come a volerci ricordare chi siamo.
“Fammi vedere quanto sei felice”, ti urlo addosso, ma le tue braccia sono più veloci. E come se non fosse passato un giorno, siamo di nuovo io e te.
Ma con vent’anni in più,
iniettati di sangue e battito,
di rabbia e desiderio,
di tormento e paura.
Perché non ha importanza l’inizio.
Ma sempre, e solo, la fine.