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Timore del cambiamento e meccanismi di difesa: perché il veganesimo fa arrabbiare?

Spesso i cambiamenti sono considerati dei veri e propri traumi a livello sociale – basti pensare al passaggio dalla lira all’euro con convertitore automatico alla mano, o alla più recente chiusura totale delle città e alla nostra necessità di abituarci a un sistema quotidiano diverso dal solito. Il punto è questo: cambiare abitudini ci terrorizza al punto da rendere poco appetibili certe evoluzioni o rivoluzioni. Mi ci ha fatto ripensare la recente Giornata internazionale della consapevolezza sugli sprechi e la perdita alimentare, di cui si è parlato anche su Light Magazine, perché in effetti, d’istinto, l’essere umano sviluppa dei meccanismi di difesa che possono ingigantirsi e trasformarsi in odio verso determinate categorie di persone.

Non a caso, se è indubbio che il modo di produrre e consumare cibo vada ripensato alla radice, è pur vero che da diversi anni le persone vegane vengono ciclicamente chiamate a rispondere delle loro scelte. Appena tirano in ballo la loro posizione, partono filippiche sulla falsa riga di «Stammi lontano, io non potrei, ma come fai, ma cosa mangi, ma nemmeno il latte?», per l’idea secondo cui il veganesimo equivale a un integralismo da hipster, da membro di una setta o, perché no, da persona poco brillante. D‘altronde, uno studio italiano del 2016, ovvero L’inchiostro digitale è vegano? del sociologo Nicola Righetti, ha spiegato attraverso un’analisi empirica che la stampa italiana ha parlato della scelta vegana in maniera equa e sempre più assidua negli anni, nonostante le grandi responsabilità che i mass media e la televisione hanno avuto nello sviluppo di un sentimento negativo al riguardo da parte dell’opinione pubblica.

Ecco perché c’è chi decide di vivere nell’anonimato – a tale proposito, a settembre, nella trasmissione Mattino 5, condotta da Federica Panicucci, ho notato l’ennesimo scontro tra fazioni onnivore e vegane in cui si incitava all’odio verso quest’ultima categoria, montando insieme titoli di giornale, foto e brevi riprese che, in realtà, non avevano alcun nesso logico tra di loro. L’unico filo rosso era il titolo fazioso «Vegani contro tutti, proteste e polemiche tra provocazioni, adesioni VIP ed eccessi», tramite cui ancora una volta si è puntato il dito contro l’infondatezza e la ferocia di chi, in realtà, partecipa a proteste pacifiche o smette di mangiare certi prodotti senza chissà quali velleità. Così, anche se tanta gente non sbandiera la propria scelta ai quattro venti, non la impone e se può evita perfino di nominarla, finisce ugualmente per ingrossare le fila di un esercito che ingoia bile in silenzio quando vede l’esaltato o l’esaltata di turno augurare il peggio a chi non la pensa come loro, peggio ancora se su una rete nazionale.

Sul Web, poi, la situazione non è certo migliore. Uno studio in merito, apparso sul British Journal of Sociology e intitolato Vegafobia, di Karen Morgan e Matthew Cole, ha analizzato centinaia di articoli inglesi presenti in rete e ne ha concluso che dal loro insieme emerge un’immagine più che negativa di vegetarianesimo e veganesimo, ridicolizzati dal potere della stampa: «Evidenza empirica – scrivono – suggerisce che il passaggio al veganismo spesso segue l’essere venuti a contatto con informazioni che criticano lo specismo e le relazioni di sfruttamento umani-nonumani, informazioni che spesso provengono da mezzi di comunicazione non dominanti, come volantini di attivisti vegan, libri, film e siti web (Amato e Partridge 1989; McDonald et al. 1999; Larssson et al. 2003). Quindi si contestano i messaggi dei media dominanti sul veganismo: nonostante ciò, i messaggi di contestazione non hanno una distribuzione molto ampia e trovarli richiede uno sforzo maggiore agli attori sociali».

La conseguenza è che c’è gente vegana di cui altre persone vegane si vergognano e decine di individui che non verranno mai interpellati, perché è più facile generare audience sfruttando il punto di vista di chi esagera, anziché provare a intavolare un dibattito onesto intellettualmente. Optare per il vegetarianesimo o per il veganesimo significa, quindi, passare per moralista e ricevere un trattamento ostile basato soltanto su degli stereotipi, come ha dimostrato uno studio condotto nel 2015 in Inghilterra: al pari di altre minoranze prese in considerazione durante la ricerca (immigrate, omosessuali, atee, tossicodipendenti o nere), infatti, anche quella vegana è vittima non di rado di bullismo e discriminazione.

Ciò accade perché, come ha riportato un’analisi pubblicata dalla BBC, i meccanismi di difesa delle persone onnivore si trasformano, come accennavamo in precedenza, in manifestazioni di rabbia e di intolleranza. E non finisce qui, dato che il risentimento collettivo negli anni si è accresciuto tanto da portare, nel 2001, alla nascita del termine vegefobia, coniato in Francia nel corso del Veggie Pride e indicante ogni tipo di ridicolizzazione, discriminazione, esclusione e violenza originata da determinate scelte alimentari individuali. Ora: al netto del fatto che è praticamente impossibile essere del tutto coerenti, niente giustifica un insulto o un’azione aggressiva contro di loro. C’è chi mangia carne e chi dedica la propria vita agli animali (a tal proposito segnalo il Santuario Capra libera tutti, a cui di recente è stato dedicato un servizio all’interno della trasmissione Che ci faccio qui di Domenico Iannacone), e solo un’apertura mentale da entrambe le parti permette di evitare lo scontro.

A conti fatti, sposare la causa vegana non necessariamente significa viverla come una rinuncia o ammalarsi a causa di qualche carenza alimentare: la maggior parte di chi lo fa continua a mangiare patatine fritte o torte super zuccherate, a bere alcolici o a guidare l’auto, però sembra che nel 2020 questo susciti ancora diffidenza e atteggiamenti maligni. Perché? Forse perché il vero timore è che, sotto sotto, si abbia torto.

Articolo apparso sulla rivista Light Magazine.